Suscitano in me perplessità posizioni come quella di P. Flores d'Arcais - espressa sul Manifesto di domenica 23/8 - che, affermando l'autonomia dell'uomo da Dio, sembrano per ciò dare per scontato il relativismo.
Si dice: se Dio non esiste - e dunque l'uomo è auto-nòmos e si dà da solo le sue leggi - allora per ciò stesso l'umanità si esprime in una pluralità ed eterogeneità di scopi e valori, e la Democrazia è l'esercizio quotidiano che si fa per conciliare o almeno dare eguale dignità alle infinite forme esistenziali: la "laicità" è proprio lo spazio in cui esse possono convivere. Premessa di questa convivenza è che si riconosca la propria come una verità "relativa" e non assoluta, e che dunque essa non possa avere la pretesa di imporsi sulle altre, come invece tende ad imporsi una verità ritenuta universale e assoluta.
Io ritengo tuttavia che l'autonomia dell'uomo da Dio non sia incompatibile con l'idea e il perseguimento di princìpi universali immanenti e che la Democrazia sia compatibile anche con l'idea di un principio universale - di qualsiasi natura esso sia, trascendente o immanente - che si possa costruire con pazienza e fatica nella tolleranza, generata quest'ultima non dall'umiltà data dalla cosapevolezza della molteplicità ontologica dei significati - che li equipara -, ma dalla consapevolezza delle difficoltà che l'uomo incontra ad avvicinarsi all'unico significato universale.
"...perchè pensare è faticoso...e la gente cerca tutte le scorciatoie per non pensare...io credo che ci sia la guerra perchè non si pensa...pensare è già la pace!" Cesare Zavattini
mercoledì 26 agosto 2009
lunedì 24 agosto 2009
LA BELLEZZA
Dice Platone nel Simposio che l'amore è il desiderio di procreare nel bello con il corpo o con la mente: a un certo punto gli uomini, desiderosi di perpetuarsi (sia attraverso la generazione di corpi, sia attraverso la creazione di Leggi e di altre opere dello spirito) cercano di avvicinarsi alla bellezza, dalla quale vengono fecondati e resi creativi.
Ma cosa è allora, propriamente, la bellezza ? Mi viene fatto di pensare che ciò che ci rende veramente creativi, fecondi e, di fatto, vivi, possa essere solo il senso della potenza del Sè, che è anzitutto senso primario e fisico, e che quindi la bellezza sia anzitutto incarnata da tutto ciò che noi pensiamo possa potenziarci primariamente come persone concrete e viventi.
L'esperienza originaria della bellezza non può consistere dunque altro che nell'esperienza di un corpo materno, che ci dona la dignità di esistere, bellezza che seduce, che conduce a sè nello spazio vivente, radice fisica del pensiero, e che conserva la sua traccia in ogni bellezza, nella quale vediamo rispecchiata l'evidenza di una ragione nella quale collocarci, derivata dal senso fisico che il Sè possiede di esistere nel mondo.
Ma cosa è allora, propriamente, la bellezza ? Mi viene fatto di pensare che ciò che ci rende veramente creativi, fecondi e, di fatto, vivi, possa essere solo il senso della potenza del Sè, che è anzitutto senso primario e fisico, e che quindi la bellezza sia anzitutto incarnata da tutto ciò che noi pensiamo possa potenziarci primariamente come persone concrete e viventi.
L'esperienza originaria della bellezza non può consistere dunque altro che nell'esperienza di un corpo materno, che ci dona la dignità di esistere, bellezza che seduce, che conduce a sè nello spazio vivente, radice fisica del pensiero, e che conserva la sua traccia in ogni bellezza, nella quale vediamo rispecchiata l'evidenza di una ragione nella quale collocarci, derivata dal senso fisico che il Sè possiede di esistere nel mondo.
sabato 22 agosto 2009
SUL CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO
A gennaio, quando Israele invase Gaza, scrissi queste note:
Quando, dopo l'armistizio dell'8 settembre '43, le truppe naziste calarono dal Brennero per stabilire il dominio sulla penisola, quale avrebbe dovuto essere la risposta "proporzionata" degli italiani a quest'invasione ? Come avrebbe dovuto attuarsi la difesa del loro suolo patrio e della libertà ?
Il dominio nazista non comportava che la loro vita fosse negata (se non per una cerchia ristretta di persone – gli ebrei-), ma che sarebbe stata fortemente limitata nelle sue possibilità, nella sua libertà appunto. Fu proporzionale allora una risposta armata che, reagendo all'oppressore, ne negava la vita, mentre l'obiettivo dell'oppressore era "solamente" quello di negare la libertà e non la vita ?
Gli italiani, invece di reagire militarmente, avrebbero dovuto forse accettare inizialmente questo dominio, sottostando ai limiti loro imposti, rinunciando ad essenziali diritti, confidando in una resistenza passiva o in altre forme di resistenza non-violenta, cercando di trattare, di convincere l’invasore del proprio errore ?
Piaccia o no, la reazione di Israele (Stato legittimamente istituito da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 1948) contro Hamas, con tutto quello che ne consegue a Gaza, rientra nella identica logica della reazione di chi sente la propria libertà e dignità violate e condizionate da un quotidiano stillicidio di minacce e violenze, e che non vede (come non vedevano gli alleati e i democratici antifascisti di fronte alla follia del nazi-fascismo) alcuna possibilità di trattativa. Rientra nella stessa logica che animava i bombardieri alleati che facevano strage anche di bambini sganciando bombe sulle città tedesche.
Ma - attenzione - affermare che si comprendono le motivazioni di Israele non significa però affermare che si ritenga razionale la sua azione militare. Infatti, mentre l'esercito tedesco era battibile - e dunque, per quanto terribile possa essere esprimersi in questo modo, la guerra aveva un senso - in questo caso ben difficilmente si comprende come possa essere sconfitto Hamas, tanto grande è infatti la ramificazione e il radicamento dell'estremismo che esso rappresenta. Rischia, piuttosto, questa guerra, di approfondire il conflitto.
Quindi a mio avviso Israele ha fatto una scelta estremamente rischiosa, probabilmente un grave errore, anche se di fronte a drammatiche ma indubitabili ragioni.
Quando, dopo l'armistizio dell'8 settembre '43, le truppe naziste calarono dal Brennero per stabilire il dominio sulla penisola, quale avrebbe dovuto essere la risposta "proporzionata" degli italiani a quest'invasione ? Come avrebbe dovuto attuarsi la difesa del loro suolo patrio e della libertà ?
Il dominio nazista non comportava che la loro vita fosse negata (se non per una cerchia ristretta di persone – gli ebrei-), ma che sarebbe stata fortemente limitata nelle sue possibilità, nella sua libertà appunto. Fu proporzionale allora una risposta armata che, reagendo all'oppressore, ne negava la vita, mentre l'obiettivo dell'oppressore era "solamente" quello di negare la libertà e non la vita ?
Gli italiani, invece di reagire militarmente, avrebbero dovuto forse accettare inizialmente questo dominio, sottostando ai limiti loro imposti, rinunciando ad essenziali diritti, confidando in una resistenza passiva o in altre forme di resistenza non-violenta, cercando di trattare, di convincere l’invasore del proprio errore ?
Piaccia o no, la reazione di Israele (Stato legittimamente istituito da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 1948) contro Hamas, con tutto quello che ne consegue a Gaza, rientra nella identica logica della reazione di chi sente la propria libertà e dignità violate e condizionate da un quotidiano stillicidio di minacce e violenze, e che non vede (come non vedevano gli alleati e i democratici antifascisti di fronte alla follia del nazi-fascismo) alcuna possibilità di trattativa. Rientra nella stessa logica che animava i bombardieri alleati che facevano strage anche di bambini sganciando bombe sulle città tedesche.
Ma - attenzione - affermare che si comprendono le motivazioni di Israele non significa però affermare che si ritenga razionale la sua azione militare. Infatti, mentre l'esercito tedesco era battibile - e dunque, per quanto terribile possa essere esprimersi in questo modo, la guerra aveva un senso - in questo caso ben difficilmente si comprende come possa essere sconfitto Hamas, tanto grande è infatti la ramificazione e il radicamento dell'estremismo che esso rappresenta. Rischia, piuttosto, questa guerra, di approfondire il conflitto.
Quindi a mio avviso Israele ha fatto una scelta estremamente rischiosa, probabilmente un grave errore, anche se di fronte a drammatiche ma indubitabili ragioni.
lunedì 17 agosto 2009
PENSIERO GRECO E PENSIERO CRISTIANO
Vi possono essere due diversi modi per affrontare il problema del divenire e del nulla: il pensiero della legge e il pensiero dell'eterno.
Il primo modo fu quello dei greci : il pensiero della realtà immutabile e delle sue leggi e dell' "ubris" (tracotanza) dell'uomo, che è punito se tenta di violarle; con questo pensiero i greci chinano il capo di fronte alla Necessità e alla Legge (Ananke e Logos), e inventano una razionalità disumana perchè odia l'assenza di limite (già con Pitagora, vero padre del pensiero ellenico). La morte è la fine della vita, di cui resta in eterno solo il principio (archè).
Il secondo modo è tipico del pensiero cristiano, che nasce fondamentalmente come sussulto dell'umanità "sventurata" (nel senso completo di Simone Weil, che pensa alla sventura come condizione insieme "sociale" e "creaturale"). Questo sussulto è anti-greco: non solo gli uomini persistono, quando prima svanivano, ma fin dalla Genesi sono invitati a mutare le loro sorti e considerati quindi liberi di agire nel mondo per modificarlo (U.Galimberti, Psiche e Techne). In questo sforzo tutto terreno, gli uomini rivendicano uguale dignità e non solo uguale facoltà razionale (vedi lo schiavo del "Menone" di Platone, che riesce a comprendere il teorema di Pitagora, ma che rimane schiavo: infatti, al greco che domina, interessa il principio e non la vita).
Vi è quindi una fondamentale doppiezza nel pensiero cristiano, non presente in quello greco: da una parte, la prospettiva eterna personale che riscatta oltre di noi (che è l'elemento "creaturale"), dall'altra, la rivendicazione di una dignità immanente e tutta carica di sovvertimento sociale, che riscatta qui ed ora.
Il vero cristiano sente, allo stesso modo, un doppio modo di essere oltre il mondo: da una parte, poichè invita al disvalore terreno e alla perfezione metafisica (la "vanità di vanità" dell'Ecclesiaste e della spiritualità orientale), dall'altro perchè sa che questo mondo è luogo del potere di dominio, cioè è in gran parte luogo dove si ruba "terreno" agli altri (Rousseau, Discorso sull'origine della disuguaglianza), cioè si ruba "vita terrena", dignità appunto.
Nelle Beatitudini a mio avviso c'è il netto richiamo a questa doppiezza, e i vangeli si completano: i "poveri" di Luca sono veramente coloro che vestono di stracci, mentre quelli di Matteo sono i santi, e sembra che per i primi sia evocata la salvezza terrena (infatti, se il paradiso è per i buoni, perchè bearne tutti i poveri ? Non esistono forse poveri "cattivi" ? Salvezza terrena allora, cioè riscatto sociale, anzitutto), per i secondi quella eterna, compimento della prima.
Il primo modo fu quello dei greci : il pensiero della realtà immutabile e delle sue leggi e dell' "ubris" (tracotanza) dell'uomo, che è punito se tenta di violarle; con questo pensiero i greci chinano il capo di fronte alla Necessità e alla Legge (Ananke e Logos), e inventano una razionalità disumana perchè odia l'assenza di limite (già con Pitagora, vero padre del pensiero ellenico). La morte è la fine della vita, di cui resta in eterno solo il principio (archè).
Il secondo modo è tipico del pensiero cristiano, che nasce fondamentalmente come sussulto dell'umanità "sventurata" (nel senso completo di Simone Weil, che pensa alla sventura come condizione insieme "sociale" e "creaturale"). Questo sussulto è anti-greco: non solo gli uomini persistono, quando prima svanivano, ma fin dalla Genesi sono invitati a mutare le loro sorti e considerati quindi liberi di agire nel mondo per modificarlo (U.Galimberti, Psiche e Techne). In questo sforzo tutto terreno, gli uomini rivendicano uguale dignità e non solo uguale facoltà razionale (vedi lo schiavo del "Menone" di Platone, che riesce a comprendere il teorema di Pitagora, ma che rimane schiavo: infatti, al greco che domina, interessa il principio e non la vita).
Vi è quindi una fondamentale doppiezza nel pensiero cristiano, non presente in quello greco: da una parte, la prospettiva eterna personale che riscatta oltre di noi (che è l'elemento "creaturale"), dall'altra, la rivendicazione di una dignità immanente e tutta carica di sovvertimento sociale, che riscatta qui ed ora.
Il vero cristiano sente, allo stesso modo, un doppio modo di essere oltre il mondo: da una parte, poichè invita al disvalore terreno e alla perfezione metafisica (la "vanità di vanità" dell'Ecclesiaste e della spiritualità orientale), dall'altro perchè sa che questo mondo è luogo del potere di dominio, cioè è in gran parte luogo dove si ruba "terreno" agli altri (Rousseau, Discorso sull'origine della disuguaglianza), cioè si ruba "vita terrena", dignità appunto.
Nelle Beatitudini a mio avviso c'è il netto richiamo a questa doppiezza, e i vangeli si completano: i "poveri" di Luca sono veramente coloro che vestono di stracci, mentre quelli di Matteo sono i santi, e sembra che per i primi sia evocata la salvezza terrena (infatti, se il paradiso è per i buoni, perchè bearne tutti i poveri ? Non esistono forse poveri "cattivi" ? Salvezza terrena allora, cioè riscatto sociale, anzitutto), per i secondi quella eterna, compimento della prima.
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